Le clamorose dichiarazioni espresse due mesi fa, a Cernobbio nel corso della “Conferenza nazionale sulla ricerca sanitaria”,dal passato ministro della Salute, Ferruccio Fazio. sulla inesistenza in Italia di una “fuga di cervelli” (“Oggi in Italia non abbiamo un’emorragia di cervelli, ma una fisiologica scelta dell’estero per i ricercatori”) ha scatenato un acceso dibattito che sta riempiendo le pagine dei giornali.
A tal riguardo vorrei, anche io, esprimere la mia opinione anche perché, mi sia consentita questa affermazione, ritengo di avere sollevato tra i primi la questione, trasformando la mia situazione in una denuncia mediatica, un “caso nazionale” che ritengo sia servito a fare aprire gli occhi a molti italiani. Mi riferisco alla “famosa” (recentemente ha meritato, addirittura, una serie di repliche in una trasmissione dedicata alle cineteche RAI) intervista fattami, a Fiumicino, sulla scaletta dell’aereo che stava per portarmi negli USA, nel lontano 1973 da un grande giornalista, Joe Marrazzo, che suscitò uno scalpore enorme, addirittura interrogazioni parlamentari. In breve: venivo da una esperienza eccezionale; lavorare fianco a fianco con quello che era il numero uno della ricerca medica nel mondo Albert Bruce Sabin scopritore del vaccino contro la polio. Forte di ciò speravo che, una volta tornato in Italia, le università , il mondo accademico, mi avrebbero accolto a braccia aperte. Speravo di sfruttare l’esperienza, anche manageriale che avevo acquisito negli Stati Uniti per mettere su un gruppo di ricerca sulla chemioterapia antivirale. Certo, non avremmo avuto i fiumi di dollari che inondavano i laboratori di Cincinnati ma da italiani avremmo potuto operare lo stesso con molto meno. L’arte di arrangiarsi: era questa la vera dote dei ricercatori italiani che avevo conosciuto all’estero. E già pensavo di coinvolgere nel progetto qualcuno tra questi. Mi illudevo. Avevo sottovalutato quella spaventosa casta, composta da baroni, burocrati e trafficoni che avevano imbrigliato la ricerca italiana in una ragnatele di disorganizzazione, sprechi e clientele guidata da una soffocante, quanto incompetente, gerontocrazia.
E così, dopo due anni di promesse, frustrazioni, inutili tentativi di mettere su a Napoli una unità di ricerca degna di questo nome non mi restava che ripartire per gli USA con un biglietto di sola andata. Mi “consolai” nel mio nuovo soggiorno negli USA con le numerose lettere dei colleghi rimasti in Italia che mi aggiornavano sugli imbrogli che continuavano a costellare i concorsi universitari. Imbrogli magistralmente illustrati da una vignetta – pubblicata, il 25 Novembre 1993, sulla rivista Nature – che conservo ancora oggi sotto cornice. Raffigura un notabile rinascimentale che mostra ad un Leonardo da Vinci visibilmente contrariato i risultati di un immaginario, ma verosimile concorso, i cui vincitori erano nell’ordine: 1) A. Borgia; 2) C. Borgia; 3) D. Borgia; 4) F. Borgia; 5) H. Borgia. Nel mostrargli la graduatoria, il commissario consolava così l’illustre trombato: “Non fa niente, Leonardo, andrà meglio la prossima volta”.
Ma chiudiamo questa breve parentesi autobiografica.
In linea puramente teorica la “fuga dei cervelli” (in inglese brain drain), l’emigrazione verso paesi stranieri di persone di talento o alta specializzazione professionale, non è un fenomeno tipicamente italiano né recente. La mobilità degli studiosi, infatti, ha caratterizzato fin dagli albori le università costituendo un formidabile fattore di arricchimento culturale. Il problema nasce quando il saldo tra gli studiosi che lasciano un paese (o una parte di questo, ad esempio il nostro Mezzogiorno) e quelli che vi ritornano o vi si trasferiscono è negativo.
Nel campo della Medicina questo fenomeno ha assunto proporzioni drammatiche come denunciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che nel maggio scorso ha approvato il Global Code of Practice on the International Recruitment of Health Personnel: un Codice internazionale per il reclutamento di personale sanitario che punta a regolare e contenere la migrazione di medici e infermieri qualificati formati in paesi impoveriti verso i paesi del Nord del mondo, attraverso meccanismi che rafforzano al tempo stesso i sistemi sanitari di provenienza di questi professionisti.
Il nuovo Codice è uno strumento importante per rispondere alla crisi del personale sanitario a livello globale, e in particolare in Africa Sub-sahariana. Sappiamo infatti che in un continente che sostiene il peso del 24 per cento del carico di malattia globale, ma ha solo il 3 per cento del personale sanitario mondiale, ogni anno decine di migliaia di medici e infermieri specializzati decidono di emigrare verso paesi più ricchi, alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Cinque paesi africani hanno addirittura tassi di emigrazione di medici superiori al 50%, vale a dire che la metà dei medici che formano lasciano il paese per lavorare in paesi OCSE. Questa “fuga dei cervelli” comporta un costo altissimo per il continente dal punto di vista economico e ancora di più in termini di negazione del diritto alla salute per centinaia di migliaia di cittadini africani.
Il nuovo Codice, pur riconoscendo il diritto individuale di migrare alla ricerca di migliori condizioni di vita, identifica una serie di principi a cui ciascun paese — attraverso i propri attori pubblici, privati e no profit — può aderire per mitigare gli effetti negativi della migrazione di personale sanitario sui sistemi sanitari dei paesi di provenienza. Tra essi: il sostegno alla cosiddetta “migrazione circolare” del personale sanitario emigrato, così che competenze e conoscenze acquisite siano fruibili sia dal paese di origine che da quello di arrivo; la rinuncia al reclutamento attivo di personale sanitario dai paesi che affrontano le carenze più marcate; il sostegno — da parte dei paesi che assumono personale sanitario da paesi impoveriti — allo sforzo di formazione nei paesi d’origine attraverso accordi di assistenza tecnica e finanziaria; una accurata pianificazione — da parte di ogni sistema sanitario — delle proprie necessità di personale sanitario sul medio e lungo periodo, così da ridurre la propria dipendenza da personale sanitario migrante. Il nuovo Codice ha anche una portata innovativa in materia di raccolta di dati sulla migrazione di personale sanitario e punta a creare dati empirici affidabili, ad oggi inesistenti, su cui basare l’azione internazionale. Ogni paese membro dell’OMS, inclusa dunque l’Italia, sarà infatti chiamato a dotarsi di un database e a condividere informazioni su questo fenomeno ogni tre anni.
Ma quanti sono i cervelli italiani in fuga? Secondo la Italian Scientist and Scholars of North American Foundation, la fondazione dei cervelli in fuga nel Nord America, solo gli stati Uniti ospitano tra i 10 mila e i 15 mila italiani. Un esodo che si fatica a quantificare con precisione visto che manca un registro. E visto che continuano a non esserci fondi per riportare a casa i ricercatori italiani, il ministero della Salute ha pensato di riportare in patria almeno le loro competenze attraverso l’Italian Network for Health Research, “una piattaforma dedicata ai ricercatori italiani residenti all’estero con l’obiettivo di creare un network che rafforzi i legami con il sistema Italia e faciliti eventuali percorsi di rientro”.
In attesa che questo progetto abbia qualche risultato occupiamoci del danno economico della faccenda. La fuga di cervelli all’estero, secondo uno studio dell’Istituto per la Competitività (I-Com) presentato qualche mese fa al Senato, ci procura un danno economico di ben 1 miliardo di euro all’anno. A tanto ammontano i 243 brevetti che i nostri migliori 50 ricercatori producono nel resto del mondo invece che a casa nostra. Un valore che proiettato a 20 anni arriva a toccare addirittura quota 3 miliardi di euro. Solo nell’ultimo anno, ad esempio, sono stati brevettate 8 scoperte dai 20 migliori ricercatori italiani fuori dal Belpaese come autori principali, per un valore di 49 milioni di euro (115 milioni tra 20 anni). Ma se si considera la totalità dei brevetti a cui i nostri 20 «top cervelli fuggiti» hanno contribuito come membri del team di lavoro, i brevetti salgono a 66, per un totale di 334 milioni di euro (782 tra 20 anni).
Tra i motivi dell’emigrazione di tante intelligenti risorse c’è sicuramente lo scarso sostegno economico alla ricerca. Anche in questo i numeri sono illuminanti: nel 2000 la percentuale destinata alla ricerca era pari all’1,1% e nel 2011, dieci-anni-dieci dopo, il progresso è assai poco significativo. La cifra oscilla infatti tra l’1,1% e l’1,3%, suddiviso in 0,6% da fondi pubblici e 0,5% da privati. E non finisce qui. Come non bastasse la nota dolente dei fondi, c’è pure quella dell’organizzazione. Lo studio evidenzia che in Italia manca anche una struttura centrale in grado di seguire il destino dei finanziamenti e questa assenza impedisce che i fondi vengano raccolti e distribuiti secondo criteri meritocratici. In altri termini, i soldi si perdono in mille progetti senza essere convogliati nei centri «incubatori di idee», parchi scientifici e campus di ricerca, che stanno invece fiorendo nei paesi più avanzati
Di fronte a questa situazione che relega il nostro paese nel fanalino di coda della ricerca scientifica c’è chi, sciaguratamente, propone una soluzione “all’americana”
Secondo la “vulgata corrente”, infatti, la ricerca scientifica negli Stati Uniti avrebbe raggiunto livelli di eccellenza grazie soprattutto all’esistenza di centri di ricerca e di Università private e grazie ai finanziamenti di privati alla ricerca scientifica. In questo quadro si inserisce anche la convinzione che la dinamica della ricerca negli USA sia legata al fatto che il numero di ricercatori con la tenure, cioè con il posto fisso, sia basso rispetto a quello dei ricercatori a contratto. In altre parole, più la carriera di un ricercatore è aleatoria, più si pensa che, a parità di costo, egli produrrà dal punto di vista scientifico. Queste strampalate idee, frutto di un’errata analisi della realtà scientifica degli Sta-ti Uniti, minacciano di minare seriamente le basi culturali del nostro sistema universitario. La con-vinzione che il finanziamento pubblico della ricerca scientifica debba essere condizionato dall’in-fluenza sull’immediata traduzione in brevetti e profitti è in contrasto con la storia stessa del sistema americano della ricerca. Al contrario, dopo la presentazione nel 1945 al Congresso degli Stati Uniti del famoso rapporto “The Endless Frontier” del fisico Vannevar Bush, molta eccellente ricerca di base è stata sviluppata in importanti laboratori industriali americani, senza relazione con immedia-te finalità applicative. Con la fine degli anni Settanta, la ricerca di base sviluppata nei laboratori in-dustriali si è fortemente ridotta, a seguito della spietata concorrenza economica con il Giappone e con gli altri paesi asiatici emergenti, per cui essa è oggi finanziata quasi esclusivamente dal gover-no americano. Una situazione simile si verifica per le Università private, come a esempio Harvard, nelle quali la ricerca scientifica è massivamente finanziata con i grants delle varie agenzie federali degli Stati Uniti e solo in minima parte con fondi privati.
La vera differenza tra la realtà italiana e quella statunitense (ma si potrebbe dire per la stra-grande maggioranza dei paesi evoluti) è data, invece, dal riconoscimento che viene dato alla bra-vura del ricercatore: quella famosa “meritocrazia”, ancora oggi scandalosamente assente nel no-stro paese e che continua a condannare i nostri migliori “cervelli”, che non vogliono rassegnarsi ad ammuffire per anni in qualche istituto ad aspettare un sempre più improbabile riconoscimento, all’emigrazione. Eppure, ancora oggi, con un sacrificio individuale che ha dell’eroico, i nostri ricer-catori raggiungono buoni risultati; infatti, nel confronto in merito alle pubblicazioni, per 1000 ricer-catori se ne producono in Italia 346, in Europa 269, in USA 204, in Giappone104.
Ma questa elevata “produttività ”, da ricercare forse nell’arte tutta italiana di arrangiarsi, non rie-sce certo a rimediare alla crisi che, da decenni, marca la nostra ricerca. Basti pensare che, dopo il lontano 1906 e Camillo Golgi, per un intero secolo nessun italiano abbia mai vinto un premio Nobel in medicina per un lavoro svolto in Italia: Rita Levi Montalcini, Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Mario Capecchi) hanno, infatti, vinto l’onorificenza andando a lavorare negli Stati Uniti.
Viene spontaneo a questo punto elencare alcune ovvie soluzioni per invertire il rovinoso trend della ricerca scientifica in Italia suggerendo, ad esempio, la stabilizzazione dei ricercatori precari (circa 30.000 secondo le più attendibili stime) attraverso forme di reclutamento che verifichino valo-re e merito o l’introduzione di sostanziosi sgravi fiscali o l’introduzione dell’8 per mille da destinare alla ricerca…
Un’altra questione che marca pesantemente in Italia la “fuga dei cervelli” è l’inesistenza della cosiddetta “meritocrazia” un termine diventato, oggi in Italia, un mantra da salmodiare. Se su Google si selezionano i termini “ricerca scientifica meritocrazia” si ottengono ben 16.300 risultati e non c’è ormai proposta di legge sul “riordino” della ricerca, relazione, intervista a qualche scienziato italiano confinato in università all’estero… che, retoricamente, non invochi un sistema di selezione e di carriera che non si basi più sull’appartenenza a qualche clan accademico, familiare o di partito. E le “soluzioni” per raggiungere questo obbiettivo si sprecano.
La più ovvia è la valutazione “oggettiva” del curriculum del ricercatore; un metodo (codificato dal Science Citation Index o, più recentemente, dal Google Scholar che “misurano” la “qualità ” della produzione scientifica) che, in teoria essere in vigore anche in Italia nell’espletamento dei concorsi universitari e nell’assegnazione dei finanziamenti. In realtà , l’ampio margine di “discrezionalità ” prevista dalla nostra legislazione e lo strapotere delle baronie accademiche hanno neutralizzato in Italia questo metodo e reso vani i ricorsi al TAR presentati da candidati ingiustamente esclusi.
Prof. Giulio Tarro