Secondo i più recenti studi di natura epidemiologica in India la prevalenza della demenza di Alzheimer nelle persone di età compresa tra i 70 ed i 79 anni è 4,4 volte più bassa che negli Stati Uniti d’America: uno studio pubblicato infatti nel 2001 nel “The Journal of Neuroscience” e, ultimamente tornato di moda,ha infatti provato a dare una spiegazione a questo fenomeno, che sembrerebbe essere dovuto all’ampio uso da parte delle popolazioni indiane di una tipica spezia chiamata “curry”.
Questa contiene un colorante giallo, la curcumina, derivato dai rizomi di alcune specie di piante ornamentali del genere Curcuma, che in India hanno anche una lunga storia come erbe medicinali. La curcumina potrebbe rappresentare un ottimo ausilio nella terapia di questa difficile malattia: in particolare la sua attività ( “scavenger”) anti-radicali liberi è diverse volte maggiore di quelle della vitamina E, inoltre protegge le cellule dalla per ossidazione lipidica e rimuove i radicali di ossido d’azoto. Basandosi su queste considerazioni, specifici topi transgenici ( siglati TG2576) sono stati alimentati, per un periodo che va dall’età di 10 fino ai 16 mesi, con del cibo in cui era presente una bassa ( 160 ppm) o alta ( 5000 ppm) dose di curcumina, si sono dimostrate in grado di abbassare significativamente la quantità delle proteine ossidate e di IL-1 Beta ( una citochina pro infiammatoria generalmente molto elevata nei cervelli di questi topi). Solo con la bassa dose, però, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, il marcatore astrocitico GFAP ( proteina astrocitica gliofibrillare), associato a processi di sanno e infiammazione, e le due forme di Beta-amiloide solubile ed insolubile, sono state trovate significativamente diminuite del 43 -50% ( ciò potrebbe trovare spiegazione in una minore attività di “clearance” da parte della microglia, ma solo quando vengano assunte dosi molto elevate di principio attivo).
Possiamo affermare, quindi, che i meccanismi coinvolti nel trattamento con la curcumina siano molteplici. Essa sopprime la microgliosi nei preparati istologici neuronali, ma è incapace di ridurla all’interno e nelle immediate vicinanze dei depositi di Beta-amiloide, suggerendo la possibilità che ne possa stimolare la fagocitosi da parte della microglia.
Gli studi iniziano in tal senso a dare conforto a tutte queste teorie: non resta che attendere fiduciosi per un nuovo approccio terapeutico verso questo brutto male.
Riferimenti bibliografici:
Ono K.. Hamaguchi T., Naiki H., Yamada M., Anti-amyloidogenic effects of antioxidants: implications for the prevention and therapeutics of Alzheimer’s disease, Biochim. Biophys. Acta 1762 (2006) 575-586.
L.G. Punziano
Medico Generico- Roma