La pandemia da SARS-CoV-2 in poco più di un anno ha causato, su oltre 120 milioni di casi accertati, quasi 3 milioni di morti al mondo (dati al 20 marzo 2021). A questi numeri già così drammatici è necessario aggiungere le cifre di tutti i danni collaterali indotti dalla COVID-19 in termini economici, sociali e sanitari.
Rimanendo in ambito infettivologico, una delle vittime della pandemia sembra essere rappresentata dalle pratiche di antimicrobial stewardship (AS), ovvero l’insieme coerente di azioni finalizzate all’utilizzo responsabile dei farmaci antimicrobici. L’AS si è sviluppata nell’ultimo decennio per rispondere ad alcune sfide cogenti: la diffusione, sempre più marcata in alcuni contesti, di patogeni farmaco-resistenti, e la crescente complessità di alcuni scenari infettivologici (infezioni in pazienti trapiantati, immunodepressi, fragili in senso lato).
La pandemia inevitabilmente ha sottratto energie preziose a tutte le altre attività che non fossero il contrasto al nuovo coronavirus. Già questa premessa ha costituito un primo fattore di “disruption” delle buone pratiche prescrittive in tema di antimicrobico-terapia, a cui si è però aggiunto un ulteriore elemento: la tendenza all’“over-treatment” del paziente COVID-19, con un alto tasso di inappropriatezza quando si tratta di antibiotici.
Se all’inizio della pandemia la scarsa, anzi nulla, conoscenza della malattia giustificava condotte prescrittive “aggressive”, che hanno fatto schizzare i consumi di antibiotici a livelli stellari, ad oggi, con oltre 12 mesi di esperienza, vi è la possibilità di razionalizzare l’uso di tali farmaci nel paziente COVID-19.
Le ragioni dell’”over-prescription” sono essenzialmente due: l’utilizzo di antibiotici quale terapia adiuvante della polmonite virale o in modo empirico per eventuali co-infezioni batteriche. Un altro fattore in gioco può essere l’inevitabile coinvolgimento nella gestione della pandemia di numerose figure non versate nell’antibiotico-terapia e senza esperienza di AS.
Circa il ruolo adiuvante, grande enfasi è stata posta nel primo periodo pandemica sui macrolidi, in particolare sull’azitromicina, in virtù del supposto effetto immunomodulante e antivirale in vitro, apparentemente confermato da preliminari esperienze osservazionali. In realtà, solidi trial randomizzati controllati hanno sonoramente smentito l’efficacia clinica su outcome rilevanti dell’azitromicina sia in contesti comunitari (studio PRINCIPLE) che ospedalieri (studi COALITION – I e II – nonché RECOVERY), considerando un ampio spettro di gravità clinica. L’utilizzo sistematico di azitromicina nel paziente COVID-19 sospetto o confermato è dunque da bocciare.
Le co-infezioni costituiscono l’altro grande tema circa le sfide dell’AS nella gestione dei casi COVID-19. Fin dalle prime sintesi della letteratura, incentrate soprattutto su studi cinesi, è risultata lampante la sproporzione tra la quota di pazienti sottoposti ad antibiotico-terapia (oltre il 70%) e quelli con co-infezione batterica accertata (meno del 10%). Questa “anomalia” si è confermata in esperienze occidentali: in uno studio olandese, su 925 pazienti ospedalizzati il 60,1% aveva ricevuto una terapia antibiotica empirica, ma una co-infezione era stata documentata in appena l’1,2% dei casi ; in uno studio statunitense, su 1705 pazienti il 56.6% aveva ricevuto antibiotico-terapia empirica nelle prime 48 ore di degenza, a fronte di un modesto 3.5% di co-infezioni batteriche di origine comunitaria accertate.
La bottom line è che le co-infezioni sono un evento non comune, per cui non è giustificata la prescrizione routinaria di antibiotici in concomitanza della diagnosi di COVID-19 o dell’ospedalizzazione. Un utile strumento per orientarsi in casi dubbi è un biomarcatore quale la procalcitonina, che in questo setting sembra avere un elevato valore predittivo negativo: 98,3% per valori inferiori a 0,1 ng/ml . Diverso ovviamente è il discorso delle superinfezioni, che possono frequentemente sopraggiungere dopo alcuni giorni di ospedalizzazione, riconoscendo quali fattori di rischio procedure invasive, immunodepressione, degenza in terapia intensiva .
In tabella 1 sono fornite una serie di raccomandazioni alla luce delle più consolidate evidenze per guidare la terapia antibiotica nei pazienti COVID-19 in modo ragionato.
Tabella 1.
Principi di buona pratica clinica di terapia antibiotica nei pazienti COVID-19 |
1) Prima di somministrare qualunque terapia antibiotica, cercare di ottenere esami colturali o di altro tipo (antigene urinario Legionella o Pneumococco) finalizzati ad accertare una co-infezione batterica |
2) Non somministrare antibiotici a scopo preventivo |
3) Non somministrare di routine macrolidi |
4) Rivalutare entro 48-72 ogni terapia antibiotica empirica instaurata ai fini di un’eventuale interruzione, se immotivata, o di opportune modifiche (de-escalation, switch a formulazioni orali) |
5) Utilizzare in modo ponderato i biomarcatori (la procalcitonina ha un alto valore predittivo negativo, risultando più utile nell’escludere che nel diagnosticare una co-infezione batterica; la proteina C-reattiva è aspecifica ed eventuali incrementi possono riflettere la reazione infiammatoria tipica dell’infezione da SARS-CoV-2) |
Fonte tabella:
- Sieswerda E et al. Recommendations for antibacterial therapy in adults with COVID-19 – an evidence based guideline. Clin Microbiol Infect 2021; 27 :61-66.
- Huttner BD et al. COVID-19: don’t neglect antimicrobial stewardship principles! Clin Microbiol Infect 2020; 26: 808-810.
Alberto Enrico Maraolo
First Division of Infectious Diseases, Cotugno Hospital, AORN dei Colli, 80131, Naples, Italy.