L’antibiotico-resistenza (AR) rappresenta uno dei principali problemi di sanità pubblica a livello globale: secondo le stime della World Health Organization (WHO), entro il 2050 i decessi dovuti a infezioni da batteri antibiotico-resistenti rientreranno tra le prime 10 cause di mortalità totale.
L’Italia, tra i Paesi europei, ha le più alte percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici utilizzate in ambito ospedaliero. Nell’ultimo anno, con l’avvento della pandemia da SARS-CoV 2, l’attenzione generale riguardo a tale fenomeno è passata in secondo piano, sebbene la pressione sulle strutture ospedaliere provocata dalla pandemia sembri aver causato un peggioramento dei tassi di AR rispetto all’era pre Covid-19.
Bisogna precisare che allo stato attuale non esistono ancora dati univoci in tal senso: l’impatto dell’emergenza sanitaria in termini di AR sarà chiaro solo nei prossimi mesi, alla luce delle analisi definitive.
A livello globale, infatti, l’ultimo report di sorveglianza sull’antibiotico-resistenza da parte della WHO risale al 2018, così come a livello europeo il sistema di sorveglianza, EARS-Net, è aggiornato ai tempi antecedenti la pandemia.
Sulla base di alcuni studi recentemente pubblicati, emergono prove contrastanti sul legame tra AR e Covid-19. In particolare, Germania e Stati Uniti hanno registrato un aumento delle infezioni da batteri multi-resistenti durante la pandemia Covid-19 , mentre studi francesi e spagnoli non hanno riscontrato alcun aumento di tali infezioni .
In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha promosso uno studio con l’obiettivo di analizzare i dati di resistenza agli antibiotici del primo semestre 2020, comprensivo cioè dei due mesi precedenti all’emergenza e dei primi mesi della pandemia, e successivamente confrontarli con i dati relativi al semestre dell’anno precedente.
I risultati suggeriscono che l’impatto della pandemia da Covid-19 sui tassi di resistenza agli antibiotici sia stato marginale, almeno nei mesi iniziali della pandemia in Italia (primo semestre 2020). Tali dati devono però essere valutati, tenendo in conto i limiti di questo studio, dovuti alla partecipazione di sole 13 Regioni/Province Autonome, quindi non rappresentative dell’intero territorio nazionale, e alla limitatezza del periodo preso in analisi, consistente esclusivamente dei primi quattro mesi della pandemia: un lasso di tempo troppo ristretto e precoce per permettere di giungere a conclusioni oggettive.
Nell’attesa di avere un quadro definitivo, tuttavia, è necessario premettere alcune considerazioni sugli atteggiamenti messi in atto in ambito tanto ospedaliero quanto territoriale durante la pandemia, che risultano preoccupanti nel contesto dello sviluppo di antibiotico-resistenze.
Uno di questi è stato l’eccessivo ricorso alla terapia antibiotica nella gestione dei pazienti con polmonite da SARS-CoV 2, sia da parte dei medici di medicina generale che nei reparti di degenza ospedaliera.
A livello territoriale, abbiamo assistito da un lato ad un indiscriminato ricorso all’azitromicina, i cui presunti benefici, in seguito, sono stati ampiamente smentiti; dall’altro lato, la difficoltà nel visitare i pazienti (dato l’elevato numero di richieste, le carenze logistiche e la mancanza di dispositivi di protezione) ha incentivato, nell’affanno generale del fronteggiare una patologia non nota, un atteggiamento di over-treatment, favorendo la prescrizione di terapie antibiotiche non necessarie.
Negli ospedali, dove si trovavano pazienti clinicamente più gravi, la mancanza di adeguate linee guida gestionali (ad es. l’utilizzo della procalcitonina per stabilire l’opportunità di iniziare una terapia antibiotica), le caratteristiche stesse della malattia in termini di parametri laboratoristici, spesso sovrapponibili a processi tipicamente batterici (leucocitosi neutrofila, linfopenia, marcato rialzo della proteina C reattiva) e la complessità dei quadri clinici e radiologici che ha reso non sempre facile l’identificazione di una sovrainfezione batterica polmonare, hanno portato molti clinici a ricorrere frequentemente all’uso di antibiotici.
A dimostrazione di ciò, una metanalisi condotta su oltre 3000 pazienti ospedalizzati per infezione da Covid-19 nella prima metà del 2020 ha dimostrato che, sebbene solo circa il 7% dei soggetti presentasse una diagnosi di co-infezione batterica, il 70% di loro aveva ricevuto almeno un antibiotico, per profilassi o per trattamento.
Occorre aggiungere, inoltre, come l’elevatissimo numero di ricoveri quotidiani nei reparti di degenza, ed in particolar modo nelle terapia intensive, abbia notevolmente aumentato il rischio di infezioni nosocomiali (e la loro trasmissione) con la conseguente necessità di impostare un trattamento antibiotico adeguato.
Il sovraccarico di lavoro gravato sul personale sanitario ha altresì causato un’interruzione dei programmi di antimicrobial stewardship già presenti e ben collaudati in molte realtà, sottraendo così l’ausilio di tali team specialistici sia nella scelta della terapia antibiotica che nello screening di pazienti con microrganismi multi-resistenti (MDRO), che normalmente richiedono misure di isolamento specifico che per ovvi motivi logistici non è stato possibile adottare.
Volgendo lo sguardo ai pazienti affetti da malattie infettive diverse dal Covid-19, i disservizi assistenziali nei loro confronti in questo anno pandemico hanno causato interruzioni o ritardi nella somministrazione dei loro trattamenti cronici, ad esempio per la tubercolosi o l’HIV, che potrebbero portare alla selezione di ceppi resistenti ai farmaci in futuro.
Al fine di contrastare l’inappropriato uso di antibiotici che si sta registrando, in un recente documento sulla gestione clinica dei pazienti con Covid-19 la WHO ha sconsigliato il ricorso alla terapia antibiotica nei pazienti con quadri clinici lievi e/o moderati, a meno di riscontrare chiari segni di infezione batterica [8]. Nei pazienti più severi, la terapia antibiotica empirica viene indicata solo sulla base del giudizio del clinico, con il supporto della conoscenza dei fattori di rischio e dell’epidemiologia locale e con rivalutazioni giornaliere per attuare, ove possibile, una rapida de-escalation. A corollario di ciò viene fortemente raccomandata l’implementazione di programmi di stewardship antibiotica da integrare alla risposta pandemica e da mantenere nel futuro.
Date queste premesse, le previsioni sui futuri tassi di AR non possono che ritenersi pessimistiche. In un’ottica complessiva possiamo però affermare che l’avvento della pandemia, a fronte della tragedia umana, sociale ed economica incommensurabile che ha comportato, abbia inevitabilmente contribuito a sensibilizzare la popolazione sull’importanza di comuni norme igieniche per controllare la diffusione di SARS-CoV 2, sia a livello intra-ospedaliero che nella popolazione generale, focalizzandosi in particolare sull’igiene delle mani, l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale e l’attenzione a non contaminare gli ambienti circostanti. Tali comportamenti sono alla base dei programmi sanitari di “Infection Prevention and Control” (IPC), precedentemente appannaggio quasi esclusivo degli operatori sanitari.
Il lavaggio delle mani con soluzione antisettiche, oramai divenuta una prassi in qualsiasi contesto, è alla base della riduzione della diffusione di germi intra-ospedalieri (ad es. Stafilococco aureus meticillino-resistente). Allo stesso modo, l’attenzione nell’utilizzare i dispositivi di protezione individuale e ad una loro corretta antisepsi, così come l’adozione delle manovre di corretta svestizione dopo il contatto con un paziente Covid-19, è divenuta ormai una pratica consolidata per tutto il personale sanitario e condivide gli stessi principi applicabili anche ad un paziente in isolamento da contatto per presenza di germe MDR.
In conclusione, è evidente che l’AR rappresentasse un’urgenza sanitaria già prima dell’avvento della pandemia, e probabilmente lo sarà ancora di più nell’era post Covid-19. Di conseguenza, nel periodo che seguirà al prolungarsi dell’emergenza, sarà importante continuare a monitorare la resistenza agli antibiotici per verificare l’impatto della pandemia in tal senso; allo stesso tempo, in una visione più ottimistica, dobbiamo ritenere che la sensibilizzazione della popolazione nel prevenire la trasmissione degli agenti infettivi potrà rappresentare la base, insieme al rafforzamento dei programmi antimicrobial stewardship, per contrastare questo preoccupante fenomeno nel futuro.
Dott. Rodolfo Punzi
Direttore Dipartimento Malattie Infettive ed Urgenze Infettivologiche
Ospedale D. Cotugno
Azienda Ospedaliera dei Colli Napoli