L’artrite reumatoide (AR) è una patologia infiammatoria cronica ad andamento invalidante che colpisce prevalentemente le articolazioni ed è mediata da meccanismi auto-immunitari.
Uno degli outcome più importanti della malattia è rappresentato dall’erosione articolare, che si sviluppa rapidamente in circa un quarto dei pazienti con AR entro 3 mesi dall’insorgenza della malattia, mentre circa i tre quarti sviluppano erosioni entro i primi 2 anni dalla diagnosi (Scott, 2004).
Nelle fasi precoci di malattia può essere difficoltoso predire quali pazienti andranno rapidamente incontro a danno articolare. Da un punto di vista clinico, questo riveste una particolare importanza, soprattutto ora che è ben noto come un intervento precoce possa migliorare la prognosi complessiva dell’AR e che si sono resi disponibili farmaci come i biologici, efficaci anche nei subset più aggressivi di malattia. Alla luce di questa variabilità dei fenotipi clinici dell’AR, risulta cruciale identificare dei marker con valore predittivo sia diagnostico che prognostico.
Nel 2010 l’ACR e EULAR hanno quindi inserito tra i nuovi criteri di classificazione dell’AR anche lo status ACPA (anticorpi anti-peptide citrullinato) (Aletaha et al, 2010), accanto ai livelli del fattore reumatoide (FR) già inclusi nei criteri del 1987 (Arnett et al, 1988).
Sia gli ACPA che il FR sono espressione della risposta autoimmune che caratterizza l’AR. A seconda della fase di malattia, FR e ACPA possono essere presenti fino al (60%) dei pazienti con AR e si manifestano in concomitanza in circa l’80% dei pazienti con positività auto-anticorpale (Nell et al, 2005). Esistono forme di AR nel 40% negative per ACPA e per questo sono stati individuati altri anticorpi come quelli anti Proteine Carbamilate ( Trouw LA Autoimmunity Rev 2012) anti Malondialdeide Acetaldeide (Thiele G Arthr Reum 2015), anti BRAF (Auger I Autoimmunity Rev 2012) anti 14-3-3 ( Maksymovich WP Cl Exp Rheumatol 2014) anti PAD3/PAD4 ( Zhao J J Reumatol 2008) che riducono notevolmente il gap sella sieronegatività.
In particolare, gli ACPA risultano fortemente associati all’AR, suggerendo che abbiano un ruolo preminente nella patogenesi della malattia. È stato infatti ipotizzato che gli ACPA siano la “benzina” che alimenta il fuoco dell’AR e che siano direttamente coinvolti nel circolo vizioso alla base della cronicità dell’AR. Inoltre, molti pazienti ACPA-positivi sembrano esserlo già anni prima dell’insorgenza della malattia. I livelli di ACPA sembrano poi presentare un incremento nei 2 anni che precedono l’insorgenza dei sintomi, per poi stabilizzarsi a livelli piuttosto alti. Sono state evidenziate inoltre differenze istologiche nei tessuti articolari infiammati tra i pazienti ACPA-positivi e ACPA-negativi, indicando un ruolo di questi anticorpi anche nell’infiammazione sinoviale (Willemze et al, 2012).
Gli ACPA possono riconoscere una varietà di antigeni citrullinati, incluso il fibrinogeno, la vimentina, il collagene di tipo II e l’alfa-enolasi. Da un punto di vista patogenetico, gli ACPA sono in grado di scatenare la risposta immunitaria sia attraverso l’attivazione del complemento sia del recettore Fc.
Possono essere presenti in diverse forme, o isotipi, incluse le IgG, IgA, IgM e IgE. Nei pazienti ACPA positivi di solito sono presenti le IgG1 e le IgG4 (nel 99% e 98% dei pazienti, rispettivamente); le IgM e le IgA sono presenti in circa il 60% dei pazienti, mentre le IgG2 e IgG3 sono rilevabili nell’80% e 60% dei pazienti, rispettivamente. La distribuzione degli isotipi degli ACPA non sembra espandersi in maniera significativa durante la progressione della malattia, indicando che questo fenomeno avvenga prima dell’insorgenza dell’artrite manifesta (Willemze et al, 2012).
Oltre ad essere altamente specifici per l’AR, la presenza e l’assenza degli ACPA si è dimostrata essere associata a differenti fattori di rischio genetici e ambientali, alimentando l’ipotesi che possano esistere differenti meccanismi patofisiologici alla base di questi due distinti subset di malattia. Anche se gli studi condotti per analizzare le caratteristiche degli ACPA in relazione ai fenotipi clinici non hanno ancora prodotto ulteriori caratterizzazioni del sottogruppo degli ACPA positivi, appare comunque chiaro che stratificare i pazienti con AR sulla base dello status ACPA permetta di identificare gruppi di pazienti più omogenei, sia in relazione al decorso di malattia sia alla risposta al trattamento (Willemze et al, 2012).
Se è vero che gli ACPA identificano diversi subset di malattia, allora anche le strategie terapeutiche dovrebbero essere diversificate. Uno studio randomizzato in doppio-cieco, placebo controllato, condotto su pazienti con artrite indifferenziata, ha evidenziato che i pazienti ACPA-positivi trattati con metotressato (MTX) avevano meno probabilità di progredire in AR, e comunque questo avveniva più avanti nel tempo rispetto ai pazienti trattati con placebo. Sorprendentemente, non si è visto alcun effetto della terapia con MTX sui pazienti ACPA-negativi (van Dongen et al, 2007). Tra i pazienti con artrite indifferenziata, inoltre, si è visto che quelli con livelli bassi o intermedi di ACPA rispondevano meglio alla terapia con MTX rispetto a quelli con elevati livelli di ACPA (Visser et al, 2008).
I dati degli studi clinici indicano quindi non solo che i due sottogruppi ACPA rispondono diversamente alla terapia, ma anche che nei pazienti con elevati livelli di ACPA la monoterapia con MTX potrebbe essere insufficiente. Inoltre, la presenza sia degli ACPA che del FR insieme ad elevati livelli di PCR è predittivo di una rapida progressione di malattia. I pazienti positivi sia per gli ACPA che per il FR hanno inoltre più probabilità di rispondere in maniera insufficiente alla monoterapia con MTX nell’AR di recente insorgenza (Visser et al, 2010). Per converso, l’assenza degli ACPA e del FR è un fattore predittivo indipendente di drug-free remission, sottolineando come il corso della malattia ACPA-positiva sembri essere caratterizzato da un’infiammazione più persistente rispetto al sottotipo ACPA-negativo (Willemze et al, 2012).
Nel complesso, questi dati indicano che i due diversi subset di malattia identificabili in base allo status degli ACPA possano permettere di ottimizzare la terapia dell’AR, portando all’adozione di diverse strategie terapeutiche. La rilevanza dello status ACPA nella decisione terapeutica si basa non solo sulla differente efficacia del trattamento, ma è supportata anche da differenze nell’outcome di malattia.
Nonostante i pazienti ACPA-positivi e ACPA-negativi con AR mostrino una presentazione clinica di malattia molto simile nelle primissime fasi, il successivo decorso è differente. I pazienti ACPA-positivi hanno una malattia più invalidante, con lo sviluppo precoce di erosioni e con un maggior rischio di sviluppare manifestazioni extra-articolari, quali la malattia ischemica coronarica o le patologie polmonari (Willemze et al, 2012). In virtù di un andamento di malattia più aggressivo, i pazienti ACPA-positivi richiedono un trattamento più aggressivo rispetto ai pazienti ACPA-negativi (de Vries-Bouwstra et al, 2008).
Le raccomandazioni EULAR per il trattamento dell’AR riconoscono il ruolo dei marker predittivi prognostici sulle decisioni terapeutiche, specificando che fattori indipendenti associati ad un outcome peggiore di malattia sono rappresentati da un’attività di malattia elevata (valutata con il DAS, la conta articolare o la PCR), la presenza precoce di erosioni e la presenza di autoanticorpi (ACPA e/o FR), specie ad alti livelli (Smolen et al, 2010).
Secondo recenti evidenze, il FR sarebbe il fattore chiave nell’alimentare l’infiammazione sierica mediata dai livelli di citochine pro-infiammatorie nell’AR. Sarebbe il FR, e non gli ACPA quindi, a mostrare un’associazione con i livelli più elevati di attività di malattia (Aletaha et al, 2015). Questo dato va però ben distinto da quello solidamente acquisito che evidenzia l’associazione tra ACPA e danno radiologico. Gli ACPA infatti sembrano avere un effetto diretto sugli osteoclasti, e quindi la loro associazione con il danno articolare potrebbe essere indipendente dall’attività di malattia (Harre et al, 2012).
Le linee guida EULAR per il trattamento dell’AR aggiornate al 2013 prevedono quindi l’introduzione precoce dei farmaci biologici, in associazione a MTX, nei pazienti con fattori prognostici negativi che rispondano in maniera insufficiente al solo MTX (Smolen et al, 2013).
Una prima sotto-analisi è stata condotta per valutare la relazione esistente tra le variazioni degli ACPA e l’attività di malattia nei pazienti trattati con ABA o ADA (Connolly et al, 2014).
I pazienti che al basale erano anti-CCP2 positivi (surrogato degli ACPA) erano il 74% (185/251) e il 79% (203/257) nel braccio ABA e ADA, rispettivamente. Con entrambi i trattamenti questi pazienti hanno dimostrato a 2 anni miglioramenti nel DAS28 e nell’HAQ più consistenti rispetto ai pazienti anti-CCP2 negativi al basale. In particolare, le variazioni medie del punteggio DAS28(PCR) al giorno 729 rispetto al basale sono state pari a -2.82 e -2.72 per ABA e ADA, rispettivamente. Nei pazienti anti-CCP2 negativi al basale, invece, le variazioni sono risultate pari a -2.26 e -2.13 per ABA e ADA, rispettivamente. Questa sotto-analisi dello studio AMPLE ha dimostrato che sia ABA che ADA inducono una migliore risposta nei pazienti anti-CCP2 positivi, impattando il profilo complessivo degli ACPA. Tra i pazienti che hanno mostrato una risposta confrontabile mantenuta nel tempo, ABA e ADA hanno evidenziato di produrre un differente impatto sugli ACPA, suggerendo un diverso effetto dei due meccanismi di azione sull’immunità adattiva (Connolly et al, 2014). Una successiva analisi post-hoc dello studio AMPLE ha stratificato i pazienti in 4 quartili (Q) sulla base dei livelli di ACPA al basale (progressivamente crescenti da Q1 a Q4). In base ai quartili sono stati poi analizzati gli outcome clinici (DAS28-PCR, HAQ, remissione) (Sokolove et al, 2015) e i patient-reported outcomes (PROs), inclusi il patient global assessment (PGA), il dolore, la fatigue, e l’SF-36 (Sokolove et al, 2015).
In ogni quartile sono stati inseriti 97 pazienti, così riparti tra i bracci ABA e ADA: Q1-42/55, Q2-51/46, Q3-46/51, Q4-46/51. Nel complesso le caratteristiche basali erano confrontabili, con nessuna differenza rilevabile tra i quartili e i gruppi di trattamento.
Per ABA, i miglioramenti medi dal basale nel DAS28(PCR) e HAQ sono stati maggiori nei quartili con più alti titoli di anti-CCP2 rispetto agli altri quartili. La riduzione del DAS28(PCR) (Sokolove et al, 2015) e dell’HAQ all’anno 2 è risultata generalmente confrontabile nei quartili 1-3 in entrambi i gruppi di trattamento. Non è invece risultata nessuna associazione tra le misure di efficacia e i livelli basali degli anti-CCP2 nel gruppo ADA.
Recenti studi hanno dimostrato che l’effetto di ABA sui linfociti B è legato alla inibizione della fosforilazione di pSyk ( Iwata S Arthr Rheum 2015), inoltre è stato osservato una riduzione delle cellule B di memoria CD27+IgD- e una riduzione dei livelli delle catene leggere seriche ( Scarsi M J Rheumatol 2014). Inoltre Abatacept riduce la differenziazione dei monociti in osteoclasti e determina un blocco che formazione di quest’ultimi, questo è un meccanismo importante nella progressione radiologica del danno ( Bozec A Sci Transl Med 2014 ).
Un recente dato dell’EULAR 2016 (Gerlag D Ann Rheum Dis suppl 1) su 82 pazienti con artralgia APCA positività, alti livelli di PCR e sinovite all’ultrasonografia ha dimostrato che una singola infusione di Rituximab ritarda l’insorgenza dell’artrite reumatoide nei pazienti con queste caratteristiche e pone scelte di tipo preventivo della malattia stessa.
Maurizio Benucci
SOS Reumatologia
Ospedale S.Giovanni di Dio
Firenze