Dalla terapia del dolore da cancro alla presa in carico del paziente sofferente: un approccio alla complessità per superare le barriere antropologiche, culturali e sociali all’accesso a cure antalgiche di alta qualità . Il dolore affligge la maggior parte dei pazienti con cancro in fase avanzata nella misura del 70% circa, a secondo del tipo di cancro e della fase di malattia. Nonostante le raccomandazioni dell’ OMS e la disponibilità di una notevole numero di trattamenti efficaci, l’under treatment interessa un gran numero di malati (in alcuni casi fino al 40% -J Pain Symptom Manage. 2003 Jun;25(6):519-27. Cohen MZ, for JCAHO) a causa di svariati motivi tra cui barriere attribuiti agli operatori sanitari, al paziente, alla famiglia alle istituzioni etc. (Ripamonti C et al, Morphine for relief of cancer pain, Lancet 1996, 347) In Italia soprattutto oncologi, farmacisti e infermieri hanno la gestione dei pazienti con dolore, il quale è solo non un problema fisico e psicologico, ma implica anche aspetti esistenziali, generando paura nel paziente (e nei familiari), e catapultandolo nella dimensione della sofferenza. Ma come possono tali operatori sanitari vincere tale sofferenza, che implica la capacità di percezione delle necessità globali dell’ altro, se essi non sono attrezzati nella relazione con il proprio paziente? Vi è pertanto necessità che l’ operatore del team oncologico non solo pervenga ad un adeguato livello di competenza tecnica, ognuno per la sua parte professionale ma che apprenda adeguate capacità di relazione. E partendo dalla classifica sulla base dell’indicatore OMS relativo al consumo terapeutico di oppiacei che assegna all’ Italia uno dei livelli più bassi d’ Europa, si può evidenziare come, accanto a cause come barriere legislative, etc, tre cause estremamente importanti della mancata erogazione di trattamenti antidolorifici ottimali sono: 1 L’ atteggiamento culturale di tipo rassegnazionista (il dolore come pratica cruenta di ascesi del paziente) o collusivo con quello del paziente (per mancanza della “giusta distanza”) o di paura dell’ abuso (l’impiego di ‘certi’ farmaci da origine alla dipendenza del paziente da essi); 2 L’ impostazione professionale con persistenza, nella quotidiana pratica clinica, di un approccio riduzionista con il quale il medico si occupa del trattamento del “solo” sintomo e di una “parte” del corpo del paziente senza transitare all’ attuale modello biopsicosociale. 3 La obsoleta comunicazione medico- paziente, legata ad un ippocratico atteggiamento paternalistico per cui la scelta di un trattamento, anche di tipo antidolorifico, possa essere più orientato da convincimenti a volte anche personalistici (nel senso di valoriali, e quindi ideologici, religiosi, etc…..) del sanitario piuttosto che dalle esigenze del sofferente.
S. Palazzo
Direttore Corsi Nazionali sul Management Sanitario in Oncologia – Roma