Il carcinoma ovarico viene in molti casi contrastato efficacemente dalla chemioterapia sistemica ma alcuni studi recenti riportano buoni risultati ottenuti da citoriduzione associata a chemioipertermia intraperitoneale (CIIP) nel trattamento di carcinomi ovarici plurirecidivi oppure di stadio e grado avanzato. La chemioipertermia intraperitoneale si è dimostrata particolarmente efficace perché riesce ad aggirare la “barriera” Plasmatico-Peritoneale, rappresentata dal tessuto sottomesoteliale e dalla membrana basale dei capillari, che limitano il riassorbimento di alcuni tipi di farmaci. Sembra infatti che alcune molecole abbiano la tendenza a concentrarsi a livello del peritoneo attraversandolo solo gradualmente, ad esempio i farmaci idrofili o ad elevato peso molecolare come il cisplatino . àˆ stato dimostrato, infatti, che il cisplatino mostra una maggiore capacità di penetrazione nel tessuto tumorale se somministrato in condizioni ipertermiche. Inoltre, a 40-42 ° C le cellule neoplastiche diventano più chemiosensibili per l’aumentata concentrazione intracellulare dei farmaci, la maggiore attivazione, specialmente per gli agenti alchilanti, la diminuita capacità di riparo dei danni al DNA. La formazione di addotti platino-DNA dopo esposizione al cisplatino è aumentata e la sua rimozione ridotta in condizioni ipertermiche, con un conseguente relativo effetto letale sulle cellule. Analogo comportamento in condizioni di ipertermia è tipico di altri farmaci come la Mitomicina C e la Doxorubicina (per la Doxorubicina solo da 42° C in su).La chemioipertermia coniuga quindi la possibilità di sfruttare da un lato l’effetto del calore (a temperature oltre 40 gradi) che, oltre possedere di per sé proprietà tumoricide, favorisce l’ingresso nelle cellule di alcuni farmaci e la loro attività antitumorale. Dall’altro, consente di utilizzare i farmaci antitumorali a dosi centinaia o in qualche caso migliaia di volte superiori a quelle utilizzabili quando le stesse sostanze sono somministrate per endovena. Il tutto con una minima incidenza di effetti indesiderati generali.Le indicazioni alla applicazione di questa procedura hanno riguardato in prima battuta il mesotelioma e lo pseudomixioma peritonei, ma gli studi hanno poi dimostrato che si dimostra efficace anche nel trattamento di tumori del colon, dello stomaco e dell’ovaio.Si tratta di un vero e proprio “lavaggio” della zona addominale che viene eseguito attraverso l’inserimento di quattro tubi nella parete addominale. Queste quattro cannule sono collegate ad un circuito esterno che funziona come una pompa. Due di queste servono per l’infusione del liquido, rispettivamente nella cavità sottofrenica destra e nella pelvi. Le altre, posizionate rispettivamente nella cavità in sede centro addominale e superficialmente nella pelvi, servono invece per la effusione del liquido. Si tratta di un meccanismo simile a quello dell’ apparecchio per la circolazione extracorporea ma, anziché abbassare la temperatura, essa viene aumentata e portata fino a circa 42 gradi grazie ad uno scambiatore di calore. Il liquido rimane in circolo nell’organismo per circa un’ora e mezzo, con un flusso di oltre mezzo litro al minuto. In questo modo tutta la parete addominale viene lavata dalla soluzione farmacologica e vengono raggiunte anche le cellule tumorali libere. Terminata la perfusione intraoperatoria, viene aspirato completamente il liquido in addome. Si tratta di un intervento invasivo e piuttosto aggressivo che richiede di rimanere in ospedale per circa venti giorni (2-3 giorni in terapia intensiva). I risultati finora raggiunti sembrano però premiare questo sforzo: grazie a questo tipo di terapia è oggi possibile trattare pazienti che fino a pochi anni fa non disponevano di una concreta possibilità di cura con risultati notevoli, sia in termini di aumentata sopravvivenza che di miglioramento della qualità della vita. Esistono dei rischi specifici legati a ciascuna delle due fasi del trattamento: dopo l’intervento chirurgico potrebbero infatti verificarsi delle complicanze (in media nel 15% dei casi), tali da rendere necessario il ritorno in sala operatoria. Allo stesso modo, potrebbero verificarsi delle reazioni al farmaco utilizzato (si manifestano nel 20% circa dei pazienti). Dopo l’intervento, può essere necessario in alcuni casi un ciclo di chemioterapia sistemica di copertura. Il limite più evidente riscontrato praticando la chemioipertermia è rappresentato dalla scarsa capacità di penetrazione dei farmaci chemioterapici in masse voluminose. E’ dunque fondamentale, prima di praticare la chemioipertermia, un intervento chirurgico che consenta di ottenere una massa neoplastica residua inferiore ai 3mm.
Alessandro Bovicelli
Ricercatore in Ginecologia e Ostetricia, Universita’ di Bologna