Negli ultimi anni l’impegno dello specialista diabetologo è stato sempre più rivolto alla gestione delle complicanze croniche del diabete mellito, condizioni responsabili di elevata mortalità e di gravi invalidità (cecità , insufficienza renale terminale, esiti di amputazioni e di eventi cardiovascolari) con forte impatto negativo sulla qualità della vita e sulla spesa sanitaria.
I meccanismi che portano a tali danni possono essere molteplici, talora specifici della malattia diabetica (per esempio, la microangiopatia), talora più generali (per esempio, la minore resistenza alle infezioni).
Un recente statement dell’American Heart Association include tra le complicanze vascolari del diabete mellito la cardiopatia ischemica, l’ictus celebrale, l’arteriopatia obliterante, la nefropatia, la neuropatia e la cardiomiopatia, seppure queste ultime di origine mista, neurogena e vascolare.
Mentre le complicanze macrovascolari sono più frequenti nel diabete di tipo 2, quelle microvascolari prevalgono nel diabete di tipo 1.
Circa 10 milioni di americani sono affetti da diabete mellito (il 90% di tipo 2) e altri 5 milioni ne sarebbero affetti senza che sia stata posta una diagnosi.
La mortalità annuale negli adulti diabetici è di circa il 5.4% (il doppio dei non diabetici) e la spettanza di vita è ridotta mediamente di 5 — 10 anni.
Il rischio di morbilità e di mortalità cardiovascolare è aumentato di 2 — 3 volte nel diabete mellito di tipo 2 (2 volte nell’uomo, 4 volte nella donna) ed è pari a quello dei non diabetici che abbiano già subìto un infarto miocardico. Anche il rischio di stroke è aumentato di 2- 3 volte ed è superiore nella donna.
Il costo/anno della gestione del paziente diabetico, calcolato su una popolazione a vari stadi di malattia, è stimato a circa 2000 dollari al valore del 1993 ed è aumentata del 50% con la comparsa di una complicanza vascolare trattata con terapia medica e del 360% dopo un evento cardiovascolare maggiore. La durata della malattia diabetica e la concomitante presenza di altri fattori di rischio quali ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, dislipidemia accresce l’evidenziazione delle manifestazioni cardiovascolari. Essa stessa è da considerarsi un fattore di rischio indipendente per malattia vascolare e, da questo punto di vista, può a ragione essere considerata una malattia vascolare.
Particolare rilevanza nell’espressione delle complicanze vascolari sarebbe rivestita dalla sindrome di insulino-resistenza che precede anche di anni l’evidenza clinica del diabete mellito di tipo 2 (sindrome metabolica) ed è caratterizzata dalla triade dislipidemia, ipertensione, stato protrombotico (elevati fibrinogeno plasmatico e inibitore dell’attivatore del plasminogeno, PAI -1) con iperinsulinemia e ridotta tolleranza al glucosio (glicemia a digiuno compresa tra 110 e 125 mg/dL), elevate VLDL e LDL con bassi livelli di HDL. La sua espressione è favorita da fattori genetici, dall’obesità , dalla sedentarietà , dall’invecchiamento. In questa fase l’iperinsulinemia rivestirebbe un ruolo per l’azione favorente la proliferazione delle cellule muscolari lisce e l’incremento della sintesi di proteine della matrice extracellulare (collageno IV, laminina, fibronectina) con aumento di spessore della membrana basale, mentre l’iperglicemia provoca glicosilazione delle proteine intra ed extracellulari ed aumento delle sostanze ossidanti locali.
Classicamente l’interessamento vascolare nel diabete mellito viene suddiviso a seconda della maggiore espressione sul microcircolo o sul macrocircolo).
COMPLICANZE MACROVASCOLARI
L’apparato cardiovascolare è principalmente colpito dalla macroangiopatia che consiste nella degenerazione della parete delle arterie di medio e grande calibro analoga all’aterosclerosi che colpisce la popolazione generale, ma che nel paziente diabetico si manifesta più precocemente e con quadri clinici di maggiore gravità . Accanto al danno coronarico, il cuore può essere interessato dalla cosiddetta “cardiomiopatia diabetica”, mentre la neuropatia vegetativa può essere responsabile di aritmie ventricolari anche fatali e di ipotensione ortostatica. La macroangiopatia è causa di ischemie a carico di diversi organo che si manifestano con svariati quadri clinici: angina pectoris, infarto miocardico, ictus e attacchi ischemici transitori cerebrali, claudicatio intermittens, gangrena agli arti inferiori , ipertensione nefrovascolare, etc. Dal punto di vista diagnostico occorre tener presente che la concomitante presenza di neoropatia può attenuare la sintomatologia dolorosa non permettendo così di riconoscere quadri clinici anche molto gravi (ad esempio, infarto miocardico silente). La patologia dei grossi vasi è particolarmente frequente nel diabete mellito di tipo 2, anche se oltre ai livelli glicemici e alla durata della malattia, assumono particolare rilevanza altri fattori di rischio concomitanti come fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa, dislipidemia e proteinuria.
Lo studio di Verona ha evidenziato che l’accesso di mortalità cardiovascolare riscontrato nel diabete di tipo 2 è presente in tutte le età della vita ed è attribuibile ad una accelerata e severa aterosclerosi.
Nell’ultima decade numerose indagini hanno documentato l’esistenza di una relazione indipendente fra malattia cardiovascolare e compenso glicemico. In modo particolare l’UKPDS ha mostrato che con l’aumentare dell’HbAlc cresce anche il rischio di eventi cardiovascolari e tale rapporto è risultato così stretto da far concludere che per ogni incremento dell’1% della HbAlc il rischio cardiovascolare aumenta del 10%.
Nell’UKPDS il trattamento intensivo del diabete si è rivelato efficace nel diminuire le complicanze microvascolari, ma non ha avuto successo nel ridurre in modo statisticamente significativo la mortalità correlata al diabete e gli infarti miocardici.
Questi dati inducono ad ipotizzare che la glicemia a digiuno e/o la HbAlc non descrivano completamente l’impatto del disturbo glicemico sulla malattia cardiovascolare e che vi possano essere altri parametri glicemici che devono essere presi in considerazione. In particolare, un ruolo di sempre maggiore importanza viene attribuito alle escursioni glicemiche, e soprattutto ai picchi iperglicemici postprandiali, che sembrano accompagnarsi ad un incremento del rischio cardiovascolare.
A conferma di quanto detto, il Diabetes Intervention Study, condotto in pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi, ha mostrato come la glicemia postprandiale, e non quella a digiuno, risultasse associata ad un aumentato rischio cardiovascolare. L’eccessivo rialzo glicemico post-prandiale è in grado di attivare meccanismi di stress ossidativo che possono portare sino alla disfunzione endoteliale e, nel lungo termine, alla formazione della placca aterosclerotica. La presenza di stress ossidativo sembra essere in rapporto con la comparsa della cardiovasculopatia e le alterazione della fase postprandiale coinvolte nella insorgenza dell’aterosclerosi sembrano essere dovute alla generazione di radicali liberi.
I rapporti tra iperglicemia e mortalità e i dati contrastanti emersi tra le varie indagini condotte in varie popolazioni sono stati di nuovo analizzati nello studio DECODE. In un gruppo di popolazioni europee comprendenti oltre 25000 individui seguiti per un periodo di tempo medio di 7. 3 anni, sono state esaminate le relazioni tra i valori glicemici a digiuno e 2 h dopo carico orale di glucosio e la mortalità , ed è stato così dimostrato come i criteri diagnostici fondati unicamente sulla glicemia a digiuno non siano i più appropriati per predire la prognosi. Al contrario, la glicemia postprandiale era maggiormente predittiva della mortalità , rispetta a quella a digiuno.
Nello stesso senso parlano i risultati dello studio CHS (Cardiovascular Health Study) , i quali indicano come il valore predittivo della glicemia alla II ora dell’OGTT (54%) fosse circa doppio di quello della glicemia a digiuno (26%).
Un altro parametro che è possibile utilizzare per valutare il compenso glicemico è il coefficiente di variazione della glicemia (si ottiene dividendo la deviazione standerd di una serie di misurazioni per la media delle glicemie).
Stratificando i pazienti in base a questo parametro, lo studio di Verona ha dimostrato che tanto più è elevata la variabilità della glicemia tanto è maggiore il rischio a 5 anni di mortalità per cause cardiovascolari.
E’ inoltre da sottolineare che in questo studio i pazienti con più elevata variabilità della glicemia erano anche quelli con maggiore frequenza di episodi ipoglicemici. Probabilmente la variabilità della glicemia non è di per se l’elemento responsabile dell’elevata mortalità cardiovascolare del diabete di tipo 2, ma è l’indicatore che meglio esprime un’instabilità abituale del compenso glicemico. Quest’ultimo infatti è maggiormente correlato alla mortalità cardiovascolare di quanto non lo sia la media della glicemia a digiuno.
COMPLICANZE MICROVASCOLARI
Vi è una correlazione diretta tra durata del diabete, controllo glicemico ed espressione di danno microvascolare. Una riduzione dell’emoglobina glicosilata di 1 punto percentuale sia nel diabete di tipo 1 che di tipo 2 può ridurre nel tempo di oltre il 30% le complicanze microvascolari.
Retinopatia
La retinopatia è la più comune causa di cecità nella popolazione di età compresa tra i 30 e i 69 anni. Un quinto dei pazienti alla prima diagnosi di diabete di tipo 2 ha una retinopatia. La maculopatia è la più frequente espressione della retinopatia nel diabete mellito di tipo 2.
Nefropatia
La nefropatia diabetica è caratterizzata da proteinuria > 300 mg/die, ipertensione arteriosa e progressivo declino della funzione renale con necessità di emodialisi e/o di trapianto renale. Negli stadi precoci è rivelata dalla microalbuminuria (20- 300 mg/die). E’ correlata ad un incremento del rischio cardiovascolare e della mortalità in entrambi i tipi di diabete. Le espressioni istopatologiche sono due: la diffusa, con ispessimento della membrana basale e dello strato mesangiale glomerulare e la nodulare, con accumulo di materiale PAS positivo alla periferia del glomerulo stesso (sindrome di Kimmelsteil-Wilson).
Polineuropatia
E’ presente in circa il 50% dei pazienti diabetici. La causa è probabilmente mista microvascolare e neurogena da sofferenza metabolica per la glicosilazione proteica. L’espressione predominante è sensitiva e colpisce gli arti inferiori con intorpidimento, parestesie-disestesie, iperestesia. Di particolare interesse è la neuropatia autonomica che si esprime con i disturbi gastrointestinali (dispepsia, costipazione, diarrea) ma anche con ipotensione ortostatica, sincopi, e arresto cardiaco e che concorre con l’aterosclerosi coronarica, la prolungata ipertensione arteriosa, l’iperglicemia e la microvasculopatia alla determinazione della miocardiopatia diabetica.
Una particolare espressione della neuropatia è rappresentata dal piede diabetico a genesi mista neurogena-vascolare con ulcerazioni torpide a lenta guarigione o ad evoluzione sfavorevole sino alla amputazione per gangrena.
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto detto, la terapia attuale del diabete di tipo 2 non può solo essere finalizzata al mantenimento di adeguati livelli glicemici, ma deve puntare a prevenire e curare le complicanze croniche del diabete. I grandi trial clinici di intervento come l’UKPDS per il diabete di tipo 2, hanno confermato quanto l’ottimizzazione del compenso glicemico sia importante nella prevenzione delle complicanze. Inoltre non vanno dimenticati altri fattori come il controllo della pressione arteriosa e dell’assetto lipidico e l’abolizione del fumo di sigaretta.
Per la prevenzione secondaria è necessario identificare le lesioni in fase iniziale per un intervento efficiente in quanto la terapia ha tanta più possibilità di successo quanto più è attuata precocemente.
Antonio Verrillo
Diabetologo