Il malato arteriopatico al secondo stadio rappresenta un problema dal punto di vista clinico, che non può essere risolto in maniera efficace se non si tiene conto di una serie di fattori che possono condizionare in maniera determinante la scelta terapeutica.
Questa, in tali ammalati, deve rispettare fondamentalmente alcuni obiettivi:
-Ripristinare un flusso arterioso efficace.
-Arrestare il processo evolutivo della malattia aterosclerotica sia sistemica che distrettuale.
-Migliorare la capacità deambulatoria.
L’obiettivo da raggiungere non può limitarsi alla “semplice” rivascolarizzazione arteriosa né può affrontare solo in termini “anatomo-patologici” una problematica che in sintesi fa riferimento alla “qualità di vita” del paziente arteriopatico.
Ed è questo imperativo che ci deve accompagnare sempre poiché, nel tentativo di modificare la storia naturale della arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori, non possiamo dimenticare che la terapia medica e quella chirurgica debbono essere considerate assolutamente complementari. Il perseguire esclusivamente ed ad oltranza un trattamento o l’altro non è certamente la maniera più corretta di affrontare il problema .
La rivascolarizzazione, attuata sia con procedure chirurgiche ricostruttive sia con angioplastica, rappresenta indubbiamente il trattamento di scelta nel paziente arteriopatico, ma, in linea generale, non solo non in tutti i casi è possibile procedere con un intervento chirurgico,ma non bisogna sottacere che questo è gravato, secondo le casistiche, da una percentuale di insuccessi che oscilla tra il 35% e il 50%.
Nel paziente arteriopatico al II stadio, d’altronde, non sempre appare opportuno tenere un atteggiamento aggressivo nei riguardi dell’approccio terapeutico né tantomeno, però, ci si può limitare ad aspettare la evoluzione naturale della malattia.
Spesso, a dispetto di un bagaglio farmacologico sovrabbondante ma non per questo di sicura efficacia, la progressione della A.C.O. diviene un evento ineluttabile, confermando l’assunto:” C’è sempre un momento in cui la perfusione periferica di un arto non può essere mantenuta senza l’impianto di una protesi vascolare”, affidando al trattamento farmacologico la funzione di supportare il “buon funzionamento” della protesi stessa.
Sono questi aspetti della questione che ci hanno spinto a verificare, se sia concretamente possibile il perseguimento di una via meno densa di dubbi ed incertezze, in cui si possa identificare un ruolo “dignitoso” per la terapia farmacologica, senza per questo sminuire quello della terapia chirurgica.
Non ci è stata di aiuto la letteratura in proposito, dalla quale abbiamo avuto certamente conferma di nostre precedenti esperienze del trattamento farmacologico con Iloprost nelle A.C.O. in fase critica, ma nella arteriopatia al II stadio spesso i dati rilevati sono stati contrastanti o insufficienti .
Siamo partiti quindi, alla luce di quanto considerato finora, proprio dal lavoro già fatto, con una serie di obiettivi:
– Verificare l’effetto della terapia farmacologia sulla perfusione distale già dopo il primo ciclo terapeutico.
– Verificare l’evoluzione della malattia distrettuale e la efficacia della terapia farmacologica e del training fisico nel tempo.
– Verificare il miglior schema terapeutico che potesse conciliare il massimo di efficacia con la migliore compliance del paziente.
– In ultima analisi, verificare se in questi pazienti, la terapia con Iloprost, possa divenire non solo una valida integrazione, ma una valida alternativa alla terapia chirurgica.
Marco Apperti
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ANESTESIOLOGICHE, CHIRURGICHE E DELL’EMERGENZA SEZIONE DI FLEBOLOGIA