I virus sono entità al limite tra la materia vivente e quella. Più che organismi viventi, capaci di ri-prodursi e di evolversi, si direbbero infatti cristalli o meri macchinari. Da quando, nel 1940, sono stati fotografati per la prima volta, la loro forma non ha smesso di suscitare inquietanti interrogativi. Nel virus batteriofago T4, (la cui forma ha ispirato quella del modulo lunare della missione Apollo), ad esempio, la “testa” è un icosaedro (20 facce identiche costituite da triangoli equilateri: una forma che ha la caratteristica di ottimizzare il volume del contenuto in rapporto alla superficie, e quindi alla quantità di materiale necessario per costruirlo) e una “coda” inguainata in una spirale. Le fibre della “coda” si ripiegano verso l’alto quando il virus è in latenza, (altro mirabile esempio di ottimizzazione spaziale); quando è in azione, invece, le fibre si agganciano alle pareti della cellula che sta infettando. Una volta iniettato il genoma virale nella cellula ospite, il virus non “cresce”, ma “si costruisce”; i suoi elementi costitutivi vengono prodotti in vari punti della cellula e solo in seguito vengono assemblati a costituire il virus vero e proprio. I cosiddetti retrovirus (virus il cui genoma è costituito da due molecole di RNA) non si limitano a danneggiare la cellula ma fanno qualcosa di più: integrano con il proprio patrimonio genetico quello della cellula infettata.
Ma da dove provengono i virus? Per molto tempo, tre teorie hanno tenuto banco per spiegare le loro origini. La prima afferma che essi derivano da organismi cellulari che avrebbero perduto quasi tutte le loro strutture in quanto sfruttavano quelle della cellula ospite; la seconda teoria fa derivare i virus da porzioni del genoma degli ospiti che si sono rese indipendenti; la terza li fa risalire a mole-cole complesse di proteine ed acidi nucleici formatisi in maniera autonoma, ma contemporanea-mente, alla comparsa delle cellule sulla Terra. Esiste, comunque, anche una quarta ipotesi che li fa provenire dagli spazi interstellari; una teoria enunciata negli anni 60 da due astrofisici, Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe, e — tra lo scandalo degli accademici — fatta propria, nel 1978, dal Premio Nobel Francis Crick, lo scopritore del DNA il quale teorizzava che oceani di virus stazionino negli spazi interstellari e da lì, veicolati da comete o spinti da venti stellari, raggiungano i pianeti. colonizzandoli con il loro patrimonio genetico. A supporto di questa teoria (che, tra l’altro, spiega l’esplosione di forme di vita complesse che il nostro pianeta ha conosciuto 570 milioni di anni fa) la sbalorditiva capacità dei virus e di altri microorganismi, detti estremofili, di resistere sul nostro pia-neta in ambienti estremi (quali, ad esempio, l’acido solforico concentrato degli scarichi minerari, i reattori nucleari, gli abissi oceanici). Ciò, verosimilmente, garantirebbe ad essi una sopravvivenza anche nello spazio interplanetario, caratterizzato da vuoto assoluto, basse temperature, radiazioni. Inoltre, seppur controverso, sembra che siano state ritrovate tracce di microorganismi su alcuni meteoriti.
I virus sono organismi apparentemente semplici: una piccola quantità di materiale genetico, DNA o RNA, che nei più piccoli non va oltre i tre geni, contro i nostri ventimila e oltre, protetto da un gu-scio di proteine e senza alcuna possibilità di sopravvivere al di fuori di un organismo che li accolga. Eppure hanno l’ intelligenza di escogitare strategie diverse per penetrare e moltiplicarsi negli esseri viventi, piante comprese. Basta pensare alla “furbizia” del virus della varicella che si annida per anni nelle cellule nervose dove niente possono gli strumenti di difesa dell’ organismo e, appena quest’ ultimo ha un momento di fragilità , si muove e provoca le vescicole dell’ Herpes Zoster. Il primo passo per conoscere meglio i virus, è sapere di più della loro storia evolutiva. La cosa straordinaria di alcuni di loro è la capacità di infettare le cellule germinali, quelle che trasmettono i caratteri ereditari, così da «incuneare» il proprio genoma in quello dell’ organismo ospite, una traccia indelebile trasmessa ai figli dei figli. Sono i cosiddetti provirus endogeni, volgarmente detti «virus fossili», impronta importantissima, trovata in tutti gli esseri viventi in cui si è cercata: mammiferi, insetti, molluschi. Anche nell’ uomo si sono scoperti ben 80.000 provirus “fossili”. Ma a differenza di quanto avviene nei topi o nei polli dove sono ancora attivi e possono causare malattie, nella specie umana questi virus sembrano “estinti”. Molti studi sono comunque in corso per valutare meglio loro, eventuali, funzioni. àˆ interessante anche capire quali mutamenti i provirus endogeni abbiano provocato nel percorso evolutivo del nostro organismo. Uno di questi, particolarmente curioso, è che la formazione del sinciziotrofoblasto, lo strato di cellule della placenta che impedisce il passaggio di sostanze pericolose dalla madre al feto, è governata da un gene proveniente da un provirus endogeno.
Le strategie di insediamento dei virus nell’ organismo bersaglio sono stupefacenti tanto sono so-fisticate. Riescono a bloccare i sistemi di riconoscimento, “gli antigeni sentinella” che tutte le cellule hanno sulla superficie per allertarsi contro intrusi pericolosi, ma fanno anche di più; come pirati, catturano molecole che poi utilizzano per addormentare le difese dell’ ospite.
Il rapporto tra uomini e virus si perde nella notte dei tempi.
La prima documentazione scritta riguardante un’infezione virale è costituita da un geroglifico egi-zio, disegnato attorno al 3700 a.C., che rappresenta un uomo del tempio con i segni tipici della po-liomelite paralitica. Un altro esempio riguarda il Faraone Ramsete V (1196 a.C.), che probabilmente morì a causa del vaiolo, la cui infezione, causata dal virus Variola, è testimoniata dalle lesioni pustulari presenti sul volto della sua mummia. Il vaiolo raggiunse poi l’India, forse nel corso del I millenio a.C., portato dai mercanti egiziani, mentre in Cina fu descritto a partire dal 1122 a.C. e, al contrario delle varie pestilenze che funestavano la vita dei nostri antenati in modo improvviso e de-vastante per poi scomparire, il vaiolo è rimasto endemico tra le popolazioni colpite dopo ogni ondata epidemica.
I popoli delle antiche civiltà asiatiche furono i primi ad apprendere che i soggetti guariti dal vaiolo non si ammalavano una seconda volta. Da ciò consegue l’introduzione della pratica della variola-zione, considerato il primo intervento consapevole di immunizzazione e la cui descrizione scritta è riportata per la prima volta nel 590 d.C. Gli indiani per primi ebbero l’ idea di provocare artificial-mente ed in forma lieve la malattia per proteggersi dalla forma grave; in seguito la pratica si diffuse in Cina, Arabia, Pakistan e Africa. L’ infezione deliberata di soggetti sani veniva fatta con pus del vaiolo di soggetti ammalati allo scopo di prevenire la malattia ed era parte di un rituale mistico- re-ligioso, oltre che un segno distintivo.
Per poter, però, parlare di tecnica di prevenzione vera e propria, basata sull’utilizzo del patogeno stesso per immunizzare l’organismo, è necessario fare un salto temporale fino al 1796, anno in cui il medico e naturalista inglese Edward Jenner sviluppò il primo vaccino. Jenner aveva notato che le mungitrici che vivevano nella sua contea e che avevano contratto la malattia, non grave, denomi-nata vaiolo bovino non si ammalavano neppure quando il vaiolo era diffuso in forma epidemica nel-la comunità . Di conseguenza, il 14 maggio 1796, Jenner usò materiale infettato con il virus del vaiolo bovino, ottenuto da una mungitrice, per inoculare un bambino di otto anni. Nel luglio dello stesso anno, il medico inoculò deliberatamente lo stesso bambino con materiale biologico prelevato da un soggetto affetto da vaiolo umano. Il bambino non sviluppò la malattia e questo dimostrò l’efficacia della prima forma di vaccinazione contro il vaiolo.
Grazie all’uso di tale vaccinazione, adottata universalmente nel mondo a partire dal diciannove-simo secolo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il vaiolo è stato completa-mente eradicato dal pianeta, a partire dal 1979.
La comprensione dell’esistenza dei virus ha cominciato a prendere piede alla fine del 1800 con la diffusione della teoria germinale delle malattie. Diverse malattie avevano già patterns riconoscibili e, nonostante batteri, protozoi, funghi o altri agenti potevano essere isolati per la maggior parte delle patologie, alcune malattie non avevano agenti eziologici identificabili. La maggior parte di queste si sarebbero poi rilevate malattie virali, soprattutto grazie all’utilizzo di un dispositivo meccanico, il filtro. Nel 1884 Charles Chamberland, collaboratore di Pasteur, progettò un filtro di porcellana per intrappolare i batteri più piccoli conosciuti e nel 1892 il patologo russo Dimitri Iwanowski usò questo filtro per i suoi studi, dimostrando che estratti di piante di tabacco ammalate potevano trasmettere la malattia ad altre piante anche dopo essere state filtrate. Questo significava semplicemente che era passato attraverso il filtro un agente invisibile, più piccolo di un batterio e filtrabile. In quell’epoca tale scoperta sembrava incredibile, dal momento che gli scienziati non potevano immaginare l’esistenza di qualcosa di più piccolo di un batterio e in grado di causare patologie. Nel 1898 Martinus Bejerinick confermò ed estese i risultati di Iwanowski sul Virus del Mosaico del Tabacco e fu il primo a sviluppare il concetto di virus, a cui si riferì come “contagium vivum fluidum”, ossia un agente vivente solubile.
Estremamente interessante è la dinamica di come i virus riescano a perpetuarsi all’interno del corpo umano.
Una volta penetrati all’interno delle cellule ospite, i virus danno vita ad un’infezione che può essere di tipo acuto, latente o persistente. Nel primo caso il virus entra nell’organismo, si replica e nel corso di un periodo limitato di tempo, viene completamente eliminato dall’ospite. Negli altri casi, invece, il virus rimane nell’organismo fino alla morte di quest’ultimo, quindi può dar luogo ad una convivenza uomo-virus che dura un’intera vita. Le infezioni latenti e persistenti sono caratterizzate dall’alternanza di replicazione e stati quiescenti del virus (infezione latente) oppure dall’instaurarsi di una cronicità e continuità della replicazione.
Ad esempio, la famiglia degli Herpesviridae comprende virus estremamente diffusi nella popola-zione umana ed in grado di instaurare infezioni latenti nell’uomo. In particolare, essi entrano nella fase di latenza nell’ospite al termine del primo episodio infettivo e rimangono in uno o più compar-timenti dell’organismo per il resto della sua vita con la possibilità di “riattivarsi” più o meno frequen-temente, e con manifestazioni cliniche più o meno gravi, a seconda del virus e dello stato di immu-nocompetenza dell’ospite. Il sito di latenza è differente per ogni sottofamiglia di herpes virus, ma si tratta sempre di zone dell’organismo protette da una costante aggressione del sistema immunitario, cosa che rende l’eradicazione di questi virus dal soggetto infetto praticamente impossibile. I meccanismi molecolari che consentono al genoma virale di rimanere allo stato latente e quelli che portano all’uscita dalla latenza e allo scatenamento del ciclo litico di replicazione virale sono ancora da chiarire, anche se sono stati identificati alcuni geni virali che vengono ritenuti responsabili di tale alternanza.
In particolare, gli Herpes Simplex Virus 1 e 2 (HSV1 e 2), infettano le cellule epiteliali e danno in-fezioni latenti nei neuroni. L’HSV di tipo 1 è classicamente associato a lesioni oro-faringee (herpes labiale), con episodi ricorrenti e può causare encefaliti sporadiche. L’HSV di tipo 2, invece, infetta primariamente la mucosa genitale. Il Virus Varicella Zoster (VZV) causa la malattia esantematica conosciuta come varicella nell’infezione primaria e stabilisce un’infezione latente nei neuroni, che, se riattivata, causa l’Herpes Zoster (fuoco di Sant’Antonio).
Un’altra famiglia di virus che infetta gli uomini e che è in grado di instaurare latenza nell’organismo è costituita dalla famiglia dei Polyomaviridae, che comprende, tra gli altri, JC Virus (JCV), BK Virus (BKV), SV40. L’infezione primaria dovuta a questi virus è asintomatica ed avviene durante l’infanzia; in seguito, i Polyomavirus umani instaurano latenza e un’elevatissima percentuale (80- 100%) della popolazione adulta sana mondiale risulta essere sieropositiva per questi virus. I siti dell’organismo in cui JCV è in grado di instaurare latenza sono diversi: il principale è sicuramente costituito dal tessuto renale, ma sembra che esso possa rimanere quiescente anche nei linfociti, nel midollo osseo, nei polmoni, nell’intestino e nel cervello. La riattivazione dei Polyomavirus dipende strettamente dal benessere del Sistema Immunitario dell’ospite: quando questo non è più competente, ma per svariate ragioni, va incontro a fasi di immunodepressione, i virus possono riattivare la propria replicazione e causare patologie. In particolare JCV riattivato negli ospiti immu-nocompromessi può causare una malattia demielinizzante del Sistema Nervoso Centrale, con esito fatale, chiamata Leucoencefalopatia Multifocale Progressiva (PML), mentre BKV può causare Cistiti emorragiche e Nefropatie nell’uomo.
Il virus dell’Epatite C (HCV), che appartiene alla famiglia dei Flaviviridae, invece, in seguito all’infezione primaria, che avviene per via parenterale o sessuale, può cronicizzare nell’85% dei casi. In questa elevata percentuale di popolazione infetta, la sintomatologia dovuta alla replicazione virale è varia e di varia severità : l’infezione può rimanere stabile e causare lievi epatiti, o cirrosi epatiche che possono evolvere anche in carcinoma epatocellulare. I danneggiamenti al fegato possono presentarsi anche dopo 10-30 anni dall’infezione. Nonostante i soggetti infetti sviluppino una vigorosa risposta immunitaria sia di tipo umorale, che cellulare contro HCV, l’organismo non è in grado di eliminare il virus a causa di alcune strategie che il virus sviluppa per sopravvivere. Sicu-ramente le variazioni genetiche a cui va incontro il genoma del virus stesso costituiscono la strate-gia principale per evadere la risposta immune. Solitamente, in un paziente con infezione primaria predomina una popolazione di virus omogenea dal punto di vista genetico, ma essa può modificarsi nel corso del tempo, portando all’emergenza di una o più popolazioni virali che, a seguito della modificazione genetica, abbiano ottenuto un “vantaggio” in termini di sopravvivenza della specie. La conseguenza dell’eterogeneità genica dell’HCV e della sua capacità di mutazione genetica e quindi fenotipica sono, di conseguenza, alla base dell’elevata frequenza di cronicizzazione dell’infezione, della possibile reinfezione anche con ceppi virali di genotipo diverso, della non soddisfacente efficacia della terapia e anche della difficoltà di allestire vaccini.
Come già accennato per HCV, i virus vanno incontro ad un elevato tasso di mutazioni genomi-che, che avvengono in un periodo di tempo molto breve, soprattutto se paragonato al tasso di mo-dificazioni genomiche degli uomini. Infatti, mentre nel corso di otto milioni di anni di evoluzione dallo stato di scimmia a quello di uomo, l’accumulo di mutazioni genomiche è stato pari solamente al 2%, un virus può accumulare la stessa percentuale di mutazioni genomiche nel corso di 5 giorni di attività replicativa. Questa peculiarità è presente soprattutto nei virus che possiedono un genoma ad RNA, che solitamente mostrano una limitata complessità genomica e quindi possono tollerare un elevato tasso di mutazione. Un esempio caratteristico è dato dal virus dell’Influenza, che appartiene alla famiglia degli Orthomixoviridae. I virologi distinguono le forme influenzali in Tipo A in base alle differenze tra le glicoproteine di superficie esterna del virus: l’emoagglutinina e la neuramminidasi. Finora nei virus influenzali di Tipo A, i quali circolano sia nell’uomo che negli animali, sono stati identificati almeno 16 sottotipi di emoagglutinina e 9 sottotipi di neuramminidasi con 144 combinazioni possibili. I virus influenzali di Tipo A hanno una forte tendenza a mutare e a rimesco-lare il proprio assetto genetico e tale variabilità può essere suddivisa in antigenic shift, con cam-biamenti maggiori e costituzione di nuovi sottotipi, responsabili sia di grandi epidemie che di pan-demie, e antigenic drift con cambiamenti minori, associati a casi sporadici o piccole epidemie.
Prof. Giulio Tarro
Primario emerito dell’ Azienda Ospedaliera “D. Cotugno”, (NA). Chairman della Commissione sulle Biotecnologie della Virosfera, WABT – UNESCO, Parigi. Adjunct Professor College of Science and Technology, Temple University, Philadelphia;